La situazione attuale è di assoluta incertezza, col rincorrersi contrastante di voci allarmistiche e tranquillizzanti, pareri opposti di esperti e talvolta di presunti esperti, con una classe politica in preda all’improvvisazione e allo smarrimento.
Tutto ciò non può che creare enorme sconforto nelle classi lavoratrici, stremate da due mesi di serrata, di mancati introiti, di promesse di sostegno e di contributi miseri. A ciò si aggiunge l’enorme confusione per l’attuazione della Fase 2 e per i passaggi successivi.

La Sardegna, la cui crisi economica si chiama Italia e dura da ben più che dall’arrivo del coronavirus, si trova oggi alle porte della stagione turistica senza un piano ben preciso e senza delle linee guida univoche.

E’ vero che essa beneficia del vantaggio della bassa diffusione del virus, dovuto prima di tutto alla distribuzione della popolazione in piccoli paesi e al grande senso di responsabilità, ma in parte anche a misure di chiusura all’esterno, opportune seppur tardive. E’ anche vero però che una fetta importante della propria economia ruota intorno al turismo, industria naturalmente legata allo spostamento delle persone.
Tutti in questo momento vorremmo salvaguardare il vantaggio ottenuto dalla bassa diffusione del virus, ma vorremmo anche metterlo a frutto per non perdere gli introiti di una voce che rappresenta da sola circa il 7% del PIL, a cui si deve aggiungere l’indotto.

Su queste tematiche alcuni minimizzano il problema, dicendo che si deve aprire tutto al più presto, perché la gente è esasperata e ha bisogno di lavorare. Altri invece dicono che si deve aprire per gradi, perché è pericoloso aprire subito e si deve avere pazienza.

Noi pensiamo che, per quanto riguarda la Sardegna, entrambe le posizioni siano insufficienti e inadatte alla nostra situazione.
Coloro che vogliono aprire immediatamente tutto, dai porti e aeroporti a tutti gli esercizi, dimenticano che l’iniziale vantaggio di regione poco colpita non assicura affatto una garanzia duratura contro la diffusone di un virus. Singapore ad esempio, dopo aver azzerato il problema, ha riaperto troppo presto ed è stata travolta dalla seconda ondata di contagio.
Chi invece pensa che si debba riaprire gradualmente seguendo le direttive del governo italiano, dimentica che tali direttive sono calibrate sulla situazione del nord Italia e sulle esigenze economiche della grande industria norditaliana.
La nostra situazione sanitaria è molto diversa, e il periodo estivo rappresenta un’importantissima fonte di guadagno per migliaia di piccole e medie imprese e per decine di migliaia di lavoratori stagionali.

Crediamo che la Sardegna, rivendicando con forza il proprio diritto all’autogoverno, debba decidere da sé i tempi e i modi della riapertura, secondo dinamiche autonome che tengano in considerazione la situazione sanitaria, le potenzialità di far fronte a nuove eventuali emergenze, ma anche il tessuto economico particolare della nostra isola.

Pensiamo perciò che sarebbe opportuno valutare un’opzione basata sulle nostre specificità, attuando una temporanea chiusura della Sardegna al sovraffollamento turistico, facendo però leva su un’ampia riapertura dell’economia a livello locale – chiaramente correlata ad un adeguato screening – e rimodulando in positivo anche le prescrizioni elaborate in base a modelli di luoghi altamente contagiati, permettendo la creazione di una situazione di “normalità controllata”.

Prima che si possa pensare che la mancata riapertura completa all’esterno possa causare un danno economico è opportuno considerare due aspetti: il primo è che a nulla serve un alto numero di turisti se gli esercizi sono costretti ad accogliere pochissime persone a causa del rigido distanziamento, con una reazione a catena che porterebbe a sottopagare i dipendenti e costringerli a dilatare gli orari di servizio. Il secondo è che se dovesse risalire il picco del contagio la stagione turistica si interromperà immediatamente, innescando un nuovo periodo di chiusura e vanificando quindi già ai primi caldi ogni possibile ipotesi di conclusione della stagione.

Sarebbe dunque ragionevole ipotizzare una sorta di “stagione intermedia” dotata di un alto livello di sicurezza, sebbene causerà una diminuzione dei guadagni. Si deve considerare che però i guadagni del settore turistico quest’anno saranno minori in ogni caso: due mesi di quarantena hanno causato una tale flessione della stabilità economica delle famiglie in tutto il continente che è assolutamente improbabile che saranno in tanti a potersi permettere una vacanza.

Piuttosto che cercare di fare il volo di Icaro e sfracellarci dopo il lancio, preferiamo volare basso ma andare lontano.

Un progetto di chiusura dovrebbe puntare sul turismo interno, tollerando una maggiore soglia di capienza per gli esercizi che potranno accogliere più persone, seppur sempre tenendo validi e rigorosi strumenti di sicurezza. Poter accogliere più persone di quelle attualmente stabilite nei decreti avvantaggerebbe i commercianti; poter frequentare serenamente locali in cui non ci siano persone contagiate avvantaggerebbe tutti.
L’alternativa sarebbe quella di fare il canto del cigno e tornare tutti rinchiusi in casa entro giugno.
Per attuare questo tipo di procedura la Regione, con al suo fianco tutto il settore economico e i cittadini, dovrebbe imporsi e ottenere la proroga fino all’autunno per la chiusura di porti e aeroporti, stabilendo un numero chiuso di entrate e sotto rigorosissimi controlli, sia in partenza da fuori che all’arrivo in Sardegna.

Ad una situazione di apertura controllata corrisponderà un moderato andamento economico della stagione, che pur contribuendo un pò meno alle entrate regionali (ricordiamo che le entrate della Regione corrispondono in grandissima parte alle tasse pagate in loco), potrà pur sempre permettere alle nostre istituzioni di aiutare le piccole e medie imprese per i mancati introiti e il lavoratori stagionali danneggiati dalle mancate assunzioni.
In questa situazione il tessuto turistico locale soffrirà molto, ma potrà continuare ad esistere e si riprenderà quando la situazione sarà superata, senza correre il rischio di crollare e venire soppiantato dalle grandi multinazionali. Piuttosto ci si dovrebbe chiedere a quale mulino vuole portare acqua chi insiste a proporre di aprire tutto, anche se l’epidemia fuori dalla Sardegna continua a correre.

Crediamo che allo stato attuale non esistano ricette vincenti o soluzioni perfette, ma pensiamo che sarebbe opportuno prendere in seria considerazione la rinuncia almeno per un solo anno alla tradizionale idea di turismo, come anche autorevoli virologi sembrano suggerire.

Ciò potrebbe rappresentare un grande vantaggio per l’industria turistica sarda che sopravvivrà alla catastrofe, ma sarà un grande vantaggio anche per la restante economia sarda, che non è composta solo dal turismo e che non si ritroverà a dover bloccare nuovamente tutto a causa di una forsennata gestione di un solo settore dell’economia. L’economia infatti deve avere un andamento armonioso e non puntare solo su un settore, tantomeno può pensare di sacrificare tutti i settori per provare a garantirne uno solo per una sola stagione.

Ricordiamo inoltre che la Sardegna paga da sola l’intera spesa sanitaria, pertanto un nuovo contagio determinerebbe un nuovo grave blocco dell’economia con una mancanza di entrate fiscali. A sua volta ciò causerebbe il crollo del nostro sistema sanitario, che da solo consuma la metà del bilancio regionale, avviando un catastrofico effetto domino che distruggerebbe l’intera Sardegna.

A questo punto tutti i Sardi dovrebbero chiedersi questo: preferiamo una stagione turistica di tenore più basso e con un periodo di integrazioni sociali per aziende e lavoratori svantaggiati, oppure corriamo il rischio di far crollare la nostra intera economia e l’intera Sardegna per un solo mese di falsa ripartenza?
Noi sappiamo cosa rispondere.